di Guido Talarico

Un paese fondamentale nello scacchiere africano come l’Etiopia rischia di precipitare in una sanguinosa guerra civile combattuta da opposte etnie senza che le forze di pace internazionali sentano il dovere d’intervenire. Un rischio altissimo che esporrebbe il paese e l’intera Africa subsahariana orientale al terrorismo di matrice islamica, provocherebbe un’emergenza umanitaria e migratoria di dimensioni bibliche, condannerebbe a perdite importanti molte imprese europee impegnate nella regione con nuovi progetti, tra le quali le italiane Salini Impregilo, vicina alla consegna della diga sul Nilo azzurro denominata “Grand Ethiopian Renaissance”, ed Enel Green Power, la società leader mondiale nelle energie rinnovabili aggiudicataria dei lavori per la realizzazione della Centrale di Metehara da 100 MW.

Una situazione esplosiva e dai risvolti drammatici verso la quale né l’America di Trump, molto più concentrata sulle questioni asiatiche, Cina e Corea del Nord su tutte, né l’Europa impegnata nella complicata transizione postelettorale sembrano al momento fare la dovuta attenzione. In uno scenario così compromesso, un ruolo fondamentale lo potrebbe avere proprio l’Italia. Roma ha legami storici con Addis Abeba prova ne sia che negli ultimi 24 mesi si sono recati in visita nella capitale etiopica tanto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che il Premier Giuseppe Conte.

Lo stesso Ministro degli Esteri, Enzo Moavero, proprio di recente riferendosi all’Etiopia ha assicurato che “l’Italia è pronta ad accompagnarne la crescita economica e lo sviluppo sostenibile, con una strategia articolata su un trittico di possibili iniziative”. E sulla stessa lunghezza d’onda si trova la viceministra degli Esteri con delega alla Cooperazione internazionale, Emanuela Del Re, che proprio nel Corno d’Africa ha trovato la zona di suo maggiore presenza ed attivismo.

A quanto è dato di sapere proprio Conte, il primo capo di un governo europea a recarsi ad Addis Abeba e ad Asmara dopo la firma degli accordi di pace sottoscritti poco più che un anno fa, in queste ora starebbe ragionando su come avviare un’azione a difesa della stabilità etiope. In particolare il Presidente del Consiglio italiano starebbe valutando di realizzare una azione a guida italiana sotto l’egida europea composta da un intervento diplomatico volto a sostenere pubblicamente il governo di Abiy Ahmed ed eventualmente, se non dovesse bastare, anche dall’invio di forze di pace. Questa azione, per ora soltanto ventilata, oltre che ad essere sacrosanta in termini di sostegno ad un governo di rinnovamento democraticamente eletto ridarebbe all’Italia un ruolo in un’Africa che, soprattutto dopo le vicende libiche, ci vede poco presenti.

Un fattore decisivo rimane tuttavia il tempo. Il Primo ministro etiope nell’ultimo anno è sopravvissuto almeno a tre attentati e tentativi di deporlo. Un’escalation drammatica. Un anno fa durante una manifestazione pubblica Abiy, eletto da pochi mesi, è sfuggito ad un attacco a colpi di granate che ha ucciso una persona e ferite molte altre. Lo scorso ottobre mentre si trovava nel suo ufficio è stato circondato da soldati rivoltosi che minacciavano di ucciderlo a causa degli stipendi bassi e lui, miracolosamente, li ha convinti a desistere con la sola forza delle parole.

Ma i rischi maggiori Abiy li ha corsi alla fine dello scorso giugno. Ecco una ricostruzione molto fedele fatta da “The indian ocean newsletter. Il 22 giugno alle 16, nella capitale regionale degli Amara, Bahar Dar, era in corso una riunione del governo locale quando un gruppo armato ha fatto irruzione e ha aperto il fuoco uccidendo il presidente della regione ed ex ministro dell’industria, Ambachew Mekonnen (Amara), e il ministro regionale della giustizia, Migbara Kebede (anch’egli Amara).

Alle 19:13, mentre i colpi d’arma da fuoco continuavano a risuonare in città, il responsabile delle comunicazioni del primo ministro, Nigussu Tilahun, è apparso sulla televisione etiope (ETV) annunciando che un tentativo di “presa del potere” nel Bahar Dar era stato sventato. Alle 21 ad Addis Abeba, il capo di stato maggiore dell’esercito, il Generale Seare Mekonen (che è un tigrino, la stessa etnia sostituita al potere da Abiy) e il suo amico, il generale in pensione Gezai Abera (anche lui tigrino), sono stati uccisi dalla guardia del corpo dello stesso Seare Mekonen proprio mentre il comandante dell’esercito si stava preparando a lanciare un intervento militare nel Bahar Dar. Quasi in contemporanea, il capo delle forze di sicurezza, il generale Asaminew Tsige, negava che gli eventi nel Bahar Dar fossero un tentativo di colpo di stato. Alle 23:30 di questo lunghissimo 22 giungo, il Partito Democratico Amara (ADP) rilasciava un comunicato stampa sostenendo che proprio Asaminew Tsige, già condannato nel 2008 per reati simili, era l’ideatore del tanto golpe a Bahar Dar. Circa mezz’ora dopo la mezzanotte, il primo ministro Abiy, vestito in abiti militari, è apparso in televisione facendo appello al popolo etiope per l’unità. Il 23 giugno alle 7:44 del mattino – riferisce sempre “The indian ocean newsletter” – il capo delle forze speciali, il generale Tefera Mamo, ha annunciato ufficialmente la morte di Ambachew Mekonen. Nel corso della mattinata sono poi state arrestate 255 persone, tra cui molti membri dell’apparato di sicurezza. Infine, il 24 giugno, 46 ore dopo l’ammutinamento nel Bahar Dar, Asaminew Tsige è stato ucciso dall’esercito di Zenzelema.

La cronaca minuto per minuto di questi tre micidiali giorni da la dimensione della tensione che sta attraversando l’Etiopia e dimostra come per capire bene cosa accade nel Corno d’Africa occorre prestare molta attenzione alla matrice etnica delle forze in campo. La guardia del corpo che ha ucciso il capo di stato maggiore dell’esercito è stata un Amara vicino al Movimento Nazionale dell’Amara (NAMA), un partito nazionalista etnico di recente creazione. Il generale Seare Mekonen era fedele ad Abiy ed è stato quindi visto come un traditore dal TPLF (Tigray People’s Liberation Front). Il generale Asaminew Tsige era invece noto anche per la sua posizione nazionalista etnica e per i suoi legami con il NAMA. Insomma le storiche tensioni tra le diverse etnie (Oromo, Arama e Tigrina) dominano la scena e sono figlie di una costituzione voluta dall’ex premier Meles Zenawi che, consentendo esplicitamente l’autonomia regionale, di fatto spinge le diverse etnie verso scelte secessionistiche. Non è certo un caso che poi il 27 giugno, il funerale del “generale putschista” a Lalilbela si sia trasformato in una protesta etnica di vaste proporzioni. Molti Amara, finora moderati, consideravano Tsige un eroe, la sua morte dunque mette in forte discussione le riforme avviate dal primo ministro etiope. Con un Tigray praticamente in stato di secessione e le recenti difficoltà nella regione dell’Amara, dove il NAMA esita tra indipendenza e ribellione, il progetto neofederalista di Abiy è dunque in pericolo e con esso la stabilità del paese che rischia una pericolosa balcanizzazione. A questo punto più di un osservatore ritiene che, in vista delle elezioni politiche previste nel 2020, Il premier Abiy dovrebbe modificare la costituzione, che Meles ha creato proprio per favorire uno smembramento della grande ed unita Etiopia e dell’area intera, eliminando proprio le concessioni autonomiste.

Abiy, con una capacità e un intuito che tutti gli riconoscono, è fin qui riuscito a scampare a pericoli gravi e a rimanere alla guida del paese. Ma la situazione rimane molto delicata. La minoranza tigrina, che per vent’anni ha gestito l’Etiopia e che tutt’ora controlla l’economia locale e buona parte dei servizi segreti e degli apparati militari, trama contro la maggioranza Oromo, oggi al potere con Abiy, e lotta apertamente, anche per questioni territoriali, contro gli Amara. Non solo, i tigrini sentendo di avere ormai perso l’antico potere, sembrano giocare una partita sporca volta a destabilizzare non solo l’Etiopia ma l’intero Corno d’Africa. I tigrini nei fatti sembrano puntare al “tanto peggio, tanto meglio” avviando azioni di destabilizzazione naturalmente in Etiopia, ma anche contro gli eritrei, “cugini” e alleati di un tempo, in Sud-Sudan ed in Somalia.

Insomma un paese da 100 milioni di abitanti, sede continentale dell’Unione Africana e con un ruolo chiave per la stabilità di un’area di alto valore strategico, rischia di saltare e di trasformarsi in una polveriera per il movimentismo destabilizzante dei tigrini e anche per alcune spinte islamiche fondamentaliste. Un’eventualità disastrosa per tutta l’Africa ma anche per l’Europa e per l’Italia. In questo senso l’azione del Primo Ministro italiano potrebbe risultare decisiva. Conte ha la possibilità di svolgere un ruolo fondamentale per la pacificazione e la stabilizzazione democratica dell’area. Coinvolgendo l’Europa potrebbe puntare a rafforzare il governo del cambiamento impersonato dal Presidente Abiy e così fare capire che la comunità internazionale non tollererà nuove spinte estremistiche e tantomeno altri tentativi di colpo di stato. Vedremo nelle prossime settimane se Conte, e con lui l’Europa, saranno in grado di gestire questa ennesima, pericolosissima crisi africana. Se non lo faranno loro, tra un po’ arriverà Trump. E lo farà alla sua maniera.